Il 24
Aprile è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale la modifica degli articoli
81, 97 e 119 della Costituzione Italiana. Di questa modifica in Italia si è
parlato davvero assai poco, così come degli effetti pratici che essa potrà
avere. Perché se ne è parlato così poco, mentre negli altri paesi dell’UE la
questione è stata al centro del dibattito elettorale e politico? Come si sa, la
modifica della costituzione prevede un lungo iter parlamentare, con eventuale
referendum confermativo in caso di mancanza della maggioranza qualificata dei
due terzi. In questo caso, invece, la maggioranza c’è stata e nonostante
l’appello di qualche attivista perché il Senato non desse l’approvazione finale
(rendendo così necessario un referendum e, quindi, un dibattito pubblico), tale
approvazione ha eliminato qualsiasi possibilità di consultazione popolare.
Ovvero, di informazione. Il Palazzo ha proposto, ha approvato, ha taciuto. E la
stampa? Quanti cittadini sanno che l’iter è iniziato lo scorso 15 Dicembre
2011? Perché i mezzi di comunicazione mainstream non hanno favorito un
dibattito su un tema così delicato per il nostro futuro? Secondo le opinioni di
economisti e attivisti, questa modifica sancisce la fine ufficiale del
keynesismo. In concreto, significa che non si potrà più spendere per far
ripartire l’economia, che oggi non si potrà finanziare il welfare, che non si
potrà ristrutturare l’università, la cultura, la scuola. E tutto questo è
avvenuto nel silenzio più totale del Palazzo (concordi tutti, manco a dirlo).
proponiamo
qui una analisi di ciò che è avvenuto, divisa in tre parti. qui di
seguito la parte I.
Il
golpe
Un golpe
è un colpo di stato. Noi oggi viviamo in un mondo democratico, liberale,
capitalista, in cui pensiamo che un golpe sia una parola passata di moda, buona
per descrivere soltanto qualcosa del passato o eventi contemporanei in mondi
lontani. non sarà che ci è sfuggito il rinnovamento semantico di questa parola?
Quindi la domanda è: esiste
una “attualità” del golpe? In questo post vorrei sostenere che esiste, e che è
appena stato compiuto senza che noi ce ne accorgessimo. Qui, in Italia, dal nostro governo,
e con l’assenso di tutte le forze istituzionali che contano. Mi direte alla
fine, se avrete la pazienza di leggere fino in fondo, se sto esagerando. Ma a
mio modo di vedere, quello che è successo è talmente grave da meritare una
parola forte, per provare almeno a farsi sentire. Solo un matto potrebbe
parlare di “golpe” in Italia, nel 2012. Del resto, non ho a caso invocato
“yorick the fool” a patrocinare le mie riflessioni.
Offro una
definizione minimale: un colpo di stato scavalca la sovranità Lo può fare in
molti modi. Può farlo mostrando
che lo fa: oggi golpe così non se ne vedono in giro. Può farlo, inoltre,
dando l’idea di farlo per il bene del paese. Tutti i colpi di stato rientrano
in questa categoria: mai nessuno è salito al potere dichiarando di volere il
male del paese. Quindi: 1) Il golpe che oggi avviene, e di cui mi voglio
occupare, è un incrocio di queste due categorie: mostra di non essere un golpe (primo parametro,
volto in negativo), perché chi lo vuole negare lo fa additando il suo
incardinamento nelle istituzioni democratiche e la sua dipendenza da procedure
democratiche. Ma, come vedremo più oltre in modo sintetico (ma spero efficace),
con buona pace del proceduralismo e del formalismo, i criteri formali non sono
mai sufficienti per definire una vita democratica. Si tratta di una deficienza
sostanziale del concetto di democrazia (di cui sarà meglio parlare un’altra
volta). 2) afferma di farlo per il “bene del paese”, cosa che come abbiamo
detto è una costante di tutti i colpi di stato: di conseguenza, essendo un
ubiqua forma di autolegittimazione, può subito essere scartata come ininfluente
per la conoscenza dei processi politici (con conoscenza
intendo: non idea vaga, approssimativa, ma un’idea il più possibile “chiara e
distinta”. Lascio perdere se una tale idea sia possibile in assoluto: per ora
mi basta trovarvi d’accordo sul fatto che esistono alcune idee più chiare e più
distinte di altre). Questo criterio (il “bene del paese”) appartiene sia ai
processi democratici che a quelli non democratici. Monti è stato chiamato per
il bene del paese, come Berlusconi si è candidato per il bene del paese, come
il PD si è formato per il bene del paese. Tutti per il bene del paese. Ma più
un governo, o un parlamento, insiste sul “bene del paese”, più è lecito
sospettare qualcosa al di sotto di questi richiami. In una democrazia il bene
del paese dovrebbe essere scontato. Ma cos’è il “bene del paese”? Prima di
analizzare quest’espressione, vorrei consolidare due tesi.
Tesi
1: un golpe è uno scavalcamento di sovranità.
Non userò
quindi questa parola per indicare i concetti di totalitarismo, dittatura, e
simili. La dittatura di solito si costruisce con un golpe maggiore (Golpe) che
annulla il bisogno di tutti gli altri golpe secondari definiti come in Tesi 1.
In assenza di quel Golpe (che solitamente è militare), formalmente non c’è un
inizio di dittatura. Ma l’imperfezione del concetto di democrazia sta nel fatto
che la sovranità può sempre essere scavalcata, e quindi ci possono essere dei
golpe (con la “g” piccola) pur restando un paese, formalmente, all’interno di
una cornice democratica. Le dichiarazioni di coloro che si impegnano nel portare
a termine un golpe (anche piccolo) nel riaffermare lo stazionamento in un
orbita democratica fa leva sia sul fatto che “democrazia” è un concetto (dico:
concetto) intricato e problematico, e allo stesso tempo si appoggia sulla
vaghezza del concetto comune di democrazia (quello che lo zio, la mamma e il
papà, gli amici, intendono con questa parola). In un certo senso, nel dibattito
politico, democrazia significa poco. Da cui la seconda tesi.
Tesi
2: nel dibattito politico quotidiano, e quindi nella società mediatizzata in
cui ci troviamo a vivere, “democrazia” non è un concetto. (Ovvero,
quando sentiamo questa parola non ci si presenta alla mente un’idea chiara e
distinta, ma abbiamo spesso la sensazione che sia usata un po’ come un
passe-partout.)
Mi spingo
anche un po’ più in là. Non solo viene usato come un non-concetto, ma viene di proposito usato come un non-concetto. Il
significato di questo concetto si allarga, e quindi si sfuma, e quindi tutti
“ci sentiamo” in democrazia. In realtà il momento democratico è ridotto al puro
momento elettorale (cosa di per sé non disdicevole, ma la democrazia non vive
di elezioni e basta) in cui la sovranità è contratta da una legge elettorale
particolare, e vive quotidianamente nei sondaggi,
che sono la nuova fonte della legittimità politica. Senza inoltrarci ora nella
questione della formazione (libertà di informazione, nuove tecnologie,
manipolazione classica e manipolazione informatica) dell’opinione, bisogna
almeno riconoscere che una democrazia che vive quotidianamente sui sondaggi e
ogni tanto su un voto azzoppato, è una democrazia in cui la sovranità del demos vive una vita un po’ particolare. Per
ora registriamo che il concetto e la pratica democratica vivono attualmente un
rapporto di “restrizione” (voto a crocette) e di “illusione” (legittimità
confinata ai sondaggi, fatti (cioè pagati) un po’ da chiunque). Forniremo poi
tre parametri con i quali si cercherà di definire, nel modo più generale
possibile, il concetto di democrazia e quindi di sovranità.
Il
bene del paese
"Riusciremo
a superare le difficoltà economiche e sociali se tutti, forze politiche,
economiche, sociali e produttive, lavoreremo nell'interesse del paese e del
bene comune". Mario Monti, ieri 25 Aprile 2012.
Il
“bene del paese”, come abbiamo detto, è uno slogan buono per tutti i regimi
politico e per tutte le stagioni. Sarò un po’ banale, ora. Ma è meglio fare le
cose con calma e capirle per bene. Il “bene del paese” invoca i concetti di
“bene” e di “paese”. Oggi il bene viene identificato con il concetto di
“sviluppo”, e questo con quella di sviluppo “economico”: e su questo non ci
possono essere dubbi (il mantra della crescita non si riferisce certo ad una
crescita morale, estetica, in altezza… in barba a Dostoevskij, quel grande e
implacabile sognatore, il cui ultimo messaggio fu “la bellezza salverà il
mondo”). Il bene è dunque qualcosa di economico (ma non nel senso che “costa
poco”….). Il “paese”, da parte sua, è un astrazione cui si fa ricorso quando si
devono introdurre delle norme che a loro volta introducono “sacrifici”: una
palingenesi, fin dall’antichità, passa sempre attraverso un momento sacrificale
(lo sparagmos di Dioniso, il sacrificio di Isacco, la
crocifissione di Gesù, etc.). Allora il paese funziona come concetto di
coesione e di unità, una unità che viene richiesta per perseguire l’obiettivo
del bene del paese, e cioè: dello sviluppo economico. Ci sono motivi di pensare
che questa unità e coesione siano molto rischiosi in fatto di politica. Il
paese, come referente sociale di questo concetto, si frantuma in una serie di
gruppi e di classi sociali. Una certa tradizione ha mostrato che i loro
interessi sono più contrastanti che solidali. Una certa esperienza storica ha
mostrato che quando le cose vanno bene, cioè quando l’economia capitalista va a
gonfie vele, i loro interessi possono convergere fino ad un
certo punto, perché i flussi di denaro in eccesso coprono e sovrastano le loro
differenze di base. Un matrimonio di interesse li tiene uniti. Un matrimonio di
interesse, però, entra in crisi quando in crisi entra l’interesse. E i
gruppi contrapposti riappaiono (non erano mai spariti). Ma essi vengono
ri-amalgamati dal lessico politico, che li raggruppa sotto il concetto di
“paese”, che viene a sua volta congiunto con il concetto di “bene”. I due
maggiori partiti italiani condividono questo lessico universalistico. Essi
parlano di paese e di bene. Così facendo, tacciono le differenze reali
esistenti all’interno del “paese”. E così facendo, si rendono colpevoli di
mistificazione. Traiamo una conseguenza, in forma di tesi.
un esempio della retorica del
"sacrificio" e del "bene del paese" nei sondaggi.
il 57% degli italiani
sembra però più intelligente dei politici e dei sondaggisti.
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Tesi
3: il “paese”, così come è usato correntemente dai partiti politici, non esiste.
Da cui deriva un’altra tesi. (questa tesi ha un’importanza politica enorme:
ecco perché non viene mai riconosciuta)
Tesi
4: “il bene del paese”, poiché il “paese” non esiste, è un concetto non falso
ma fittizio. Ma se è fittizio, perché viene utilizzato?
Potremmo
chiederci che cosa si consegue con l’impiego di questo concetto, e domandarci
anche che cosa non si conseguirebbe senza il suo utilizzo. Emergerà una stretta
connessione con il concetto appannato di democrazia come oggi è stata imposta
(da un certo ceto politico) in Italia (“crocette” + “illusione”) e con il
concetto di golpe che proponiamo. Innanzitutto, il suo accostamento con il
“bene”, di cui “il paese ha bisogno”. Si dice infatti, e tutti i partiti
politici lo dicono, che “il paese ha bisogno di….”. Il paese ha bisogno del
“bene”, ma questo suo bene è sempre, e davvero sempre, identificato con lo
“sviluppo economico”. Il paese ha bisogno di crescita, etc. Nell’attuale
congiuntura politico-economica, per tornare a crescere il “paese” ha bisogno di
risanare i conti, di fare tagli, di ridurre gli sprechi, di modificare gli
investimenti, di diminuire lo spread, di riguadagnare la fiducia dei mercati.
In ultima istanza, sembra che per tornare a crescere (cioè: per tornare in
vista del proprio bene) il paese abbia bisogno di risanare i conti e diminuire
la spesa. Ecco perché si invoca l’unità del paese. La si invoca perché la
compressione della spesa non può che ricadere sul “paese”. I “sacrifici” cui il
“paese” si deve sottoporre vengono detti necessari per il conseguimento del
“bene”. Si crea, grazie a questo lessico sapientemente adottato, la
percezione di uno sforzo comune per un bene comune. Tutti devono soffrire,
perché tutti un giorno godranno del bene finalmente raggiunto. Ciò che non si
dice è però che i sacrifici, che tutti fanno e che tutti devono stoicamente
accettare, hanno una caratura diversa a seconda di ciò che il “paese” realmente
è, e cioè composizione eterogenea di gruppi e classi sociali, che non stanno in
condizione di parità quanto alle condizioni di partenza e nemmeno di arrivo. Un
aumento della tassazione ha effetti diversi nei vari gruppi e classi sociali:
effetti psicologici, effetti sociologici, effetti culturali, oltreché
naturalmente effetti economici. Una contrazione del welfare, anche (alcuni
potranno permettersi un otorino privato, altri no). Inoltre, il “bene”,
identificato con lo sviluppo economico per il quale sarebbe ora necessario
“tagliare” e “fare sacrifici”, è assunto anch’esso come qualcosa che avrà una
ricaduta coerente su tutto il “paese”, mentre si sa che non sarà affatto così.
Anche ammettendo che tra qualche anno l’economia ricomincerà a crescere, non è
affatto detto che tutte le misure ora tagliate verranno automaticamente
reintrodotte, che verranno dati più soldi per i servizi pubblici territoriali,
che verranno tagliati gli umilianti contratti a progetto, che si reintrodurrà
il lavoro a tempo indeterminato, eccetera. Non sarà così. Il mito del
sacrificio proietta un’idea di futuro indeterminato dominato dal bene. questa
connessione della “politica” così come viene intesa e la dimensione del futuro
andrebbe analizzata più a fondo, ma per ora propongo la seguente domanda, che
cerca di legare assieme il fatto che il “paese” non esiste (Tesi 4) con il
problema del “tempo della politica”, immancabilmente volto verso il futuro.
Così facendo, non si trascura anche quello che è il “bene” di alcuni
gruppi sociali… ora? Il “bene” per un operaio disoccupato con
due figli è davvero che si tornerà a crescere? Non è anche
poter portare il proprio figlio ad una scuola pubblica decente ora?
Non è garantirgli la possibilità tra uno o due anni, magari, di poter accedere
all’università? Tutte queste cose, tra molte altre, non potranno essere fatte
dopo. Nel frattempo, una parte del paese (altri gruppi e classi sociali) non
subiscono veri tagli, e continuano la propria vita precedente,
con uno standard magari diminuito, sì, ma tagliato soltanto di una vacanza alle
Barbados verso Febbraio. I loro sacrifici sono comparabili con quelli di altri
gruppi sociali? Il modello quantitativo dei tagli “equamente” distribuiti non
ha, purtroppo, un funzionamento solo quantitativo. Certo, il problema non è
risolto per il fatto di essere posto. Ma lo è meno se non è nemmeno posto. Ecco
dunque una nuova tesi.
Tesi
5: il “bene del paese” non esiste sia per la tesi 4 sia perché il “bene” è un
concetto vuoto e indeterminato. Il “bene”, nella locuzione “il bene del paese”,
non esiste più di quanto esista il paese a meno di assumere dei concetti
ideologici sia di “bene” che di “paese”.
Arriviamo
ora al problema della connessione del concetto “bene del paese” con il concetto
di democrazia come viene oggi vissuto e attuato (rimane ovvia una cosa: ci sono
gruppi di persone che praticano e lottano per una democrazia diversa, oggi di
solito chiamata diretta. Ma, purtroppo, rimane il fatto che essi non sono la
maggioranza). È possibile, infatti, che una certa percezione di ingiustizia, o
di inganno, o addirittura di presa in giro, venga sentita da quella parte di
“paese” che non si riconosce nella definizione di “paese” quale è usata
oggigiorno. È possibile ad esempio che essa vogliano protestare (mostrando che
il “paese” non esiste… quale scandalo!). Come sappiamo, la percezione
dell’ingiustizia va di pari passo con l’accesso all’informazione, e l’accesso
all’informazione può regolare la formazione dell’opinione e del consenso.
Abbiamo dunque tre elementi: 1) la costante e reale possibilità di
protesta e 2) la costante e reale possibilità della possibilità di protesta e
3) la costante e reale possibilità che la possibilità di protesta entri nel
circolo dell’istituzione democratica, e che quindi possa incidere sul corso
della deliberazione politica. Il secondo elemento regola il primo.
Questo secondo elemento è l’informazione. Il terzo è invece la possibilità di
concretizzazione istituzionale del primo. Come definizione di “democrazia”
propongo la costante e reale coesistenza di questi tre elementi all’interno
dello spazio pubblico. Non è una definizione esaustiva, evidentemente; è
piuttosto una metadefinizione, al cui interno devono restare specificati i
meccanismi pratici di strutturazione di una democrazia realmente esistente. Ma
una democrazia funzionante non può rinunciare alla contemporaneità di questi
tre parametri.
Vorrei
ora sostenere che il modo in cui la costituzione è stata recentemente cambiata
a proposito del cosiddetto “pareggio di bilancio” non risponde a questi tre
criteri; che essa non è quindi democratica; che essa può essere dunque definita
un golpe nel senso della tesi 1. Ma prima enuncio la tesi 6:
Tesi
6: la democrazia può essere meta-definita come la costante e reale
coappartenenza dei tre parametri sopra enunciati.
Vediamo ora come essi hanno funzionato nella presente congiuntura del
cambiamento della Costituzione.
1. la costante e reale possibilità di protesta
Nel nostro paese la possibilità di protesta esiste. Si possono indire
manifestazioni, si possono contestare i politici, ci si può opporre senza
essere incarcerati (entro certi limiti). Questo diritto è sancito costituzionalmente.
Se ci vogliamo opporre ad una norma, quale ad esempio il pareggio di bilancio
in costituzione, possiamo organizzare una manifestazione per bloccarne
l’approvazione. Questo, in teoria.
2. la costante e reale possibilità della possibilità di protesta
In teoria, perché per protestare bisogna conoscere che cosa è
all’ordine del giorno. Un cambiamento di Costituzione in Italia è un processo
regolato costituzionalmente, e prevede parecchi passaggi Parlamentari. Ma
questa “lentezza” non è solo il lato negativo della pletorica organizzazione
statale burocratica. Questa lentezza va di pari passo con la possibilità di
dibattito, al contrario del decisionismo politico che opera in velocità per
sottrarre il tempo all’opinione pubblica di informarsi e organizzarsi. Nella
fattispecie di questa riforma costituzionale, scopriamo che è stata modificata,
e scopriamo anche che l’iter è iniziato il 15 dicembre 2011. Avete visto
qualche dibattito? No. La stampa e l’informazione ne hanno dato notizia, hanno
seguito questo iter? Non mi risulta. Almeno, non in modo sostanziale. E nemmeno
dopo l’ultima approvazione del senato c’è stato un dibattito attorno alla
sostanza della riforma, né attorno ai modi. qualche articolo certo c’è stato,
ma non tale da poter sollevare l’opinione pubblica, e questo perché la stampa
classica se ne è ben guardata. Donde: o la stampa mainstream la ritiene
“normale” (cioè tale da non dover suscitare dibattito), ma questo non sarebbe
certo una giustificazione sufficiente; oppure ha interesse a non sollevare
questa questione, perché in qualche modo connivente con l’attuale ceto
politico. in ogni caso, la disinformazione su una norma che può avere effetti
devastanti sui prossimi anni della nostra società, è stata pressoché totale. La
stampa e i mezzi di comunicazione non hanno adempiuto a fornire la possibilità
della formazione di un’opinione, e dunque di un dibattito, su un tema tanto
importante come la modifica della Carta Costituzionale. Lo Stato e la Politica,
a loro volta, non lo hanno fatto. Come conseguenza, i canali alternativi di
informazione sono stati gli unici a trattare l’argomento, ma la loro limitata
capacità di capillarizzazione ha confinato questo argomento alla “nicchia” dei
pochi che, essendo pochi, sono anche impotenti. In questo caso, negli ultimi 5
mesi la condizione numero 2 (la costante e reale possibilità della possibilità
di protesta), da cui dipende il parametro numero 1 (la costante e reale
possibilità di protesta), non ha funzionato ed è stato sospeso. Se l’insieme
dei tre parametri sopra definiti è vicino a definire una vita pubblica
compiutamente democratica, allora siamo vicini a una sospensione di fatto di
una pubblica vita democratica, in presenza tuttavia di una vita formalmente
democratica. In questo caso la forma copre i processi reali del funzionamento
democratico, e coprendoli, di fatto ne sancisce l’abolizione.
3. la costante e reale possibilità che la possibilità di protesta entri
nel circolo dell’istituzione democratica, e che quindi possa incidere sul corso
della deliberazione politica.
Essendo mancata la condizione due, nel caso di questa modifica
costituzionale la possibilità di protesta è stata drasticamente ridotta; di
conseguenza, il punto 3 non si è nemmeno posto. Nel caso di modifica della
Costituzione, è previsto un referendum solo nel caso in cui l’iter parlamentare
non segua il proprio corso dall’inizio alla fine. Ma ora il corso è finito, con
l’approvazione dei due terzi del parlamento ad ogni tornata. Fine della storia,
costituzione modificata. Si dirà che tutto questo è regolato
costituzionalmente, e che quindi è perfettamente democratico (visto che la
Costituzione nostra è democratica). Sì, ma oltre alla succitata distinzione tra
processi formalmente e sostanzialmente democratici, bisogna aggiungere, in
sfavore anche della “forma”, che il presente parlamento è eletto con una legge
elettorale a forte contrazione della sovranità, e il governo che ha promosso
questa modifica, sotto direttiva della Germania, è un governo tecnico. E questo
governo tecnico non ha mai informato (non ha fatto nulla per informare, mi
risulta: ma vi prego smentitemi) il “paese” (che esiste solo quando al ceto
politico va bene, cioè quando servono i sacrifici) di questi cambiamenti, di
cosa comporteranno, della direzione che ci costringeranno a prendere, della
sostanziale frizione tra l’articolo 81 così modificato e altri articoli
costituzionali (ad es.: introducendo il pareggio di bilancio non potremo
investire per lungo tempo in cultura, o nel welfare). Formalmente, dobbiamo dire
che tutto questo è democratico? Solo se continuiamo a usare come concetto di
riferimento un concetto lasco di democrazia, cioè quello da dibattito
televisivo e da comizio di piazza e da titolo di giornale. Se invece prendiamo
come riferimento i tre parametri proposti sopra, dobbiamo dire che non lo è. La
mancanza di una consultazione del “popolo sovrano” dovrebbe sempre, infatti,
essere controbilanciata da una campagna di informazione trasparente sui
processi in atto in parlamento, e dovrebbe accompagnarsi su un costante dialogo
del parlamento con il proprio esterno. Così non è stato. Dobbiamo concludere
che attraverso questo procedimento il popolo italiano è stato scavalcato nella
propria sovranità: dunque: si è trattato di un golpe (tesi 1). Esso è stato
costituzionale in due sensi: avvenuto all’interno dei limiti formali della
democrazia; riguardante la Costituzione stessa.
E se d’ora in poi le riforme costituzionali avvenissero tutte così? non
saremmo in una oligarchia? Parlamentare, certo, ma pur sempre una oligarchia.
Inoltre il parlamento potrebbe approvare una serie di norme che estendessero il
mandato di un parlamento da 5 a 10 anni: basterebbero i due terzi del
parlamento. Questo rischio, ovviamente, fa parte del giocattolo democratico:
esso funziona solo se tutti rispettano regole che non hanno propriamente un
fondamento, perché sono sempre “pattuite”. Esse cioè possono essere infrante in
qualsiasi momento (golpe). Ecco perché la gente reale, in carne ed ossa, deve
sempre esercitare una pressione sul collo dei parlamentari, che, letteralmente,
devono “averne paura”. Ed ecco perché tutto questo iter di modifica costituzionale
si è svolto nel silenzio: una massa di persone che non sa, non fa nulla. La
società italiana è stata ridotta a “paese”, e ad essa con questa mossa è stato
imposto un “bene”. entrambi, per le tesi 4 e 5, non esistono. Sono solo, come
anche un bambino ormai potrebbe vedere, la maschera ideologica dell’oligarchia
economica, che tenta di far ripartire la macchina inceppata del capitalismo e
dello sfruttamento. Per farlo, la democrazia (quella dei tre parametri, tesi 6)
non va bene. La volontà popolare deve essere o manipolata o esclusa da
qualsiasi possibilità di protesta e deliberazione. La stampa deve essere
comprata ed allineata. Il silenzio deve calare sui provvedimenti più
pericolosi. Pericolosi, sì, e per due motivi almeno. Per il modo in cui questo golpe
è stato compiuto, e per la sostanza che introduce nel nostro paese: fine degli
investimenti, controllo sul pareggio del bilancio, tagli della spesa in eccesso
(cioè: welfare, cultura…). E tutto questo con la connivenza di questa classe
politica. E senza che i partiti facessero sapere niente. (ma i “rimborsi” ai
partiti non dovrebbero servire loro per fare politica? E cos’è fare politica se
non creare dibattito, informare, riunire, promuovere la discussione e la
decisione comune?). Enuncio pertanto altre due tesi, che spero di aver provato
nel corso del ragionamento.
Tesi 7: per il “bene del paese”, al popolo è
stata sottratta ogni possibilità di
conoscenza, dibattito e al limite intervento su una materia riguardante “il
bene del paese”.
Tesi 8: Questo cambiamento della
Costituzione, per le modalità con cui è avvenuto, è un golpe.
A questo golpe hanno partecipato gli apparati che dovevano garantire il
parametro 2 (possibilità della possibilità di protesta = informazione). Vi
hanno partecipato le istituzioni, gran parte della Stampa nazionale, le Televisioni, le Radio,
la Chiesa. Un nuovo modello è stato imposto costituzionalmente al nostro paese,
e noi non ne sappiamo nulla, non ne abbiamo mai saputo nulla. Siamo stati
privati della nostra sovranità senza nemmeno accorgercene. Ma chi ha occupato
le televisioni, il parlamento, ecc? chi ha compiuto questo colpo di stato? Chi
sta tentando (perché forse siamo ancora in tempo) di farci varcare questa
soglia epocale, a farci entrare in una nuova era totalmente subordinata
all’idea del profitto? (cosa che viene mascherata dalla parate
moralisticheggianti delle conferenze sulla salute del pianeta, dove vengono
assunti rassicuranti impegni ecologici). Non trovo altro nome che lo “spettro
del capitale”. Uno spettro, però, molto reale. Ne derivano altre due tesi:
Tesi 9: l’ Italia non è un paese democratico
(vedi tesi 6 e 7)
Tesi 10: l’Italia è un paese fondato sul
pareggio di bilancio (poiché tutto dovrà essere subordinato a questo
principio), quindi non sul lavoro (art. 1) e nemmeno sul “bene del paese”, che
non esiste e che nella fattispecie equivale al “bene dei più ricchi e che se la
possono cavare senza problemi da sè”. Per gli altri, il “bene” un giorno verrà.
Forse.
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